Durante le ultime elezioni presidenziali in Afghanistan l’opinione pubblica occidentale ha scoperto l’acqua calda sulle innevate montagne del paese centrasiatico. Il coro di sospetto o di riprovazione per le irregolarità tenute nel corso delle elezioni è stato unanime. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Non vi sono infatti dubbi che non si possano tenere regolari elezioni nel conteso nel quale si trova lo sventurato paese. Un paese occupato e posto sotto tutela non può certo godere dell’indispensabile sovranità nazionale che rappresenta pur sempre la condizione sine qua non per costruire la democrazia, la condizione necessaria anche se non sufficiente della sua costituzione. Senza la sovranità non c’è né ci può essere la democrazia. Il ridicolo dato dell’affluenza alle urne (circa un terzo degli aventi diritto) è il dato più significativo delle elezioni.
Cosa pretendevano dunque i media dell’Occidente?
La verità che si nasconde dietro tanto ciarlare pare essere ben altra: il rapporto tra il presidente virtuale dell’Afghanistan, Karzai, ed i suoi padrini americani non è più quello di prima.
Non conta nulla la vaga idea della democrazia che hanno gli anglo-americani nella loro sfiducia verso Karzai e verso il modo con cui è stato eletto. Come non ha mai contato (se non nella propaganda) tutte le volte che l’imperialismo americano è intervenuto ai quattro angoli del globo per puntellare i suoi interessi, spesso deponendo presidenti democraticamente eletti e mettendo al loro posto come propri fiduciari i peggiori criminali che abbiano mai calcato le scene del mondo.
Più che di democrazia si tratta di imperialismo.
Nelle vicende afghane in particolare ciò che è sempre contato per Washington (quanto meno dall’epoca della crociata contro la repubblica afghana filo-sovietica dalla fine degli anni ’70) è stato il controllo del paese. Fu Brzezinski (padre putativo del presidente Barak Obama) a sostenere che pur di penetrare nella regione e cacciarne l’URSS valeva la pena di creare i presupposti per l’insediamento delle bande islamiste radicali antesignane dei talebani. “Cosa conterà di più nella storia?” si chiedeva retoricamente, “la fine dell’Unione Sovietica, od il fatto che le donne afghane siano state costrette a mettere il burka?”
Specie dal 2001 il controllo diretto del paese è divenuto fondamentale nelle strategie Usa volte a penetrare in Asia centrale per accaparrarsi cruciali risorse strategiche ed inserirsi come un cuneo tra la Cina, la Russia ed il subcontinente indiano.
Subito dopo l’invasione del 2001 furono gli Stati Uniti ad imporre un loro uomo alla guida del paese, dopo che i talebani erano stati messi in fuga. Furono loro a paracadutare su Kabul Karzai, pescato direttamente dalla Unocal (l’azienda petrolifera che doveva gestire la costruzione degli oleodotti per drenare gli idrocarburi centrasiatici attraverso il paese, verso i porti dell’Oceano indiano). La Casa Bianca non nutriva all’epoca troppa fiducia nelle bande ribelli dell’Alleanza del Nord che avevano combattuto contro i talebani e che avevano goduto del sostegno dei russi e degli iraniani.
Furono loro all’epoca a imporre Karzai. Ma le cose, si sa, possono cambiare velocemente nel Grande gioco per l’Asia centrale e l’amico di ieri si trasforma in una creatura dalle fattezze misteriose e dalle finalità inesplicabili. E’ quello che è successo a Karzai che, trovatosi alla guida di un governo puramente formale ed in balìa dei clan e della lotta armata delle tribù di gran parte del paese contro il suo potere e contro la presenza occidentale che lo sostiene, ha iniziato a guardarsi attorno. Il suo problema, analogamente a quello che hanno tutti gli alleati degli americani in questa partita (dagli occidentali al Pakistan), è che Washington continua a formulare richieste impossibili da soddisfare, se non al costo di suicidarsi politicamente. Il Pakistan è stato costretto ad accettare l’inversione totale della sua politica verso l’Afghanistan e ad accettare il bombardamento dei droni statunitensi sul suo territorio coi risultati che si vedono: il paese viene risucchiato nelle sabbie mobili della guerra mese dopo mese mentre sanguinosi attentati scuotono quotidianamente ogni angolo del “paese dei puri” ed i profughi in fuga dalle regioni di frontiera, dove impazza la guerra, ormai non si contano più[1].
Karzai doveva pur sopravvivere, e così ha iniziato a muoversi con un’autonomia che è piaciuta poco ai suoi padrini. A Washington devono aver strabuzzato gli occhi quando hanno cominciato a notare che il loro “pupazzo” dava segni di vita autonomamente dalle loro indicazioni, un po’ come Geppetto quando scoprì che il suo burattino, Pinocchio, si muoveva senza fili ed era dotato di voce.
Karzai aveva cominciato a stringere accordi con alcuni clan e gruppi vicini a sponsor non graditi agli Usa (dal filo-iraninano Ismail Khan, all’ondivago capo uzbeko Dostum fino ai potenti gruppi tagiki di Fahim) nel tentativo disperato di garantirsi una propria base di potere. Aveva anche cercato nuovi appoggi a livello internazionale, di fronte ai ripetuti fallimenti della strategia Usa nella regione. Aveva partecipato ad un vertice indetto a Teheran da Ahmadinejad insieme al presidente pakistano Zardari, aveva presenziato più volte alle riunioni dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (che riunisce le repubbliche dell’Asia centrale ex sovietica attorno alla Russia e alla Cina), aveva dimostrato disponibilità ad un marcato attivismo della diplomazia russa nella crisi.
Aveva, insomma, fatto una serie di scelte che, per quanto velleitarie, deboli e dettate dall’opportunismo, avevano mandato su tutte le furie gli strateghi statunitensi, alle prese con un cerchio che non vuole quadrare.
Gli americani sono entrati in una spirale contraddittoria: più combattono, più compiono stragi, più sono invisi dalla popolazione e spingono l’area grigia delle tribù afghane che non si erano schierate verso i talebani e le bande ribelli, indebolendo il governo virtuale di Kabul. D’altra parte il governo afghano cerca di manovrare per evitare di fare da parafulmine.
L’unica soluzione che a Washington trovano consiste nell’inviare truppe. Obama festeggerà il suo premio Nobel per la pace inviando probabilmente altri 40 mila uomini verso il fronte.
Gli americani sono fortemente indispettiti con Karzai già da tempo, dal crepuscolo dell’era Bush. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca anche in questo campo non si sono registrate novità.
Washington ha esercitato pressioni sempre più forti su Karzai, intimandogli di non collaborare con i russi e con gli altri vicini dell’Afghanistan nella lotta al traffico di droga, ponendo richieste inesaudibili (l’afghanizzazione del conflitto), infine cercando altri interlocutori ancor più disponibili. E’ infatti lecito porsi dei dubbi circa la volontà di Washington di avere a Kabul un governo stabile e forte che possa prendere in mano la situazione, perché il rischio che questo sarebbe troppo autonomo è alto.
E’ la stessa ragione per la quale quando gli europei fanno avere al segretario dell’ONU un pezzo di carta che pone la questione di stabilire un calendario vengono gelati da Rasmussen, segretario generale della Nato.
I colpi bassi assestati dai media occidentali a Karzai sembrano fatti appositamente per evitare il relativo stabilizzarsi di un autonomo centro di potere a Kabul e Karzai si è mosso con troppa autonomia. Non devono pertanto meravigliare le accuse di corruzione rivolte alla sua cerchia, la pesantissima accusa di essere immischiato nel traffico di droga rivolta a suo fratello e le pressioni che sono state esercitate da più parti su di lui per fargli accettare il boccone amaro di un secondo turno nelle elezioni presidenziali.
Certamente gli obiettivi perseguiti da Washington sono contraddittori: da un lato gli Usa vorrebbero avere meno oneri e meno costi (umani e materiali) nella guerra afghana e per far questo vorrebbero afghanizzare il conflitto grazie ad una stabilizzazione del regime di Kabul, dall’altro lato il fine della guerra è il controllo del paese e la penetrazione in tutta la regione centrasiatica e questo esclude che a Kabul i burattini si muovano senza fili.
In molti hanno notato che non è la prima volta che gli Usa cercano di scaricare in corsa i loro uomini quando questi non rispondono più alle loro aspettative o diventano addirittura ingombranti. Lo fecero, ad esempio, con Diem a Saigon, nel pieno della guerra del Vietnam.
Forse, con crismi diversi, ci hanno riprovato in questi giorni a Kabul o forse hanno voluto semplicemente dare un avvertimento.
L’Afghanistan è un paese complesso. Se è vero che Karzai era stato imposto dagli americani otto anni or sono è anche vero che in questo lasso di tempo ha lavorato per avvicinare i vari signori della guerra che avevano cercato di contenere i talebani in tempi non sospetti, né è da dimenticare che furono questi warlords ad entrare per primi a Kabul nell’autunno 2001. Così, a dispetto del suo esordio come uomo di paglia, Karzai ha finito per diventare il punto di convergenza di quelle forze (principalmente i clan tagiki, uzbeki e hazara) che in Afghanistan si oppongono ai talebani. Ed in America si fa sempre più strada l’ipotesi di una cooptazione di gruppi talebani al governo e di una parziale talebanizzazione delle strutture di potere afghane.
Il presidente afghano si stava accorgendo che forse gli Usa cercavano di scaricarlo, dopo aver goffamente tentato di trasformarlo in una sorta di capro espiatorio locale dei loro fallimenti. Il rapporto con Karzai è arrivato a rasentare la vera e propria sfida. L’attuale presidente afghano è arrivato al punto di rispondere colpo su colpo a molte accuse lanciategli nell’ultimo mese dall’Occidente. Il ministro afghano che si occupa della lotta alla droga, gen. Khodaidad, si è incaricato di replicare alle accuse rivolte dalla stampa americana ai presunti traffici illeciti del fratello di Karzai chiamando in causa il ruolo delle truppe anglo-americane nel traffico della droga. Khodaidad (che ha studiato alle accademie militari indiane e sovietiche ed è piuttosto conosciuto negli ambienti di questi paesi) ha specificato che britannici e canadesi pongono addirittura una tassa sulla produzione di oppio nelle zone da loro presidiate[2]. Con questa mossa ha aperto il vaso di Pandora, anche se sia i russi, che i cinesi, che gli indiani sapevano già da tempo quale fosse la strategia anglo-americana in merito alla spinosa questione del narco-traffico. Le pressioni esercitate da Washington su Kabul affinché l’Afghanistan fosse meno solerte a collaborare con i paesi confinanti in materia di lotta alla droga rappresentava già un messaggio piuttosto eloquente.
Probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza americana si è avuta quando Karzai si è spinto a chiedere lumi circa i sospetti voli di elicotteri militari britannici che stanno facendo la spola tra il sud ed il nord del paese, trasportando enigmatici personaggi barbuti[3]. Se sotto la spinta dell’esercito pakistano le bande talebane (e affiliate) si ritirano e cercano una dislocazione per compiere i loro propositi, il sospetto affacciato da alcuni osservatori è che i britannici non disprezzino affatto un loro trasferimento verso nord, verso il fiume Amu-Dariya, verso il confine con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale che in questi anni si sono riavvicinate a Mosca e verso il Turkestan orientale cinese.
L’arco della crisi aperto dall’intervento statunitense nella regione rischia di allargarsi a macchia d’olio, questa volta però gli antagonisti degli Usa potrebbero trovarsi trascinati direttamente nel conflitto con danni incalcolabili per tutta la regione[4].
Russi e cinesi guardano con preoccupazione a questi foschi scenari e tentano di concertare le loro mosse, stringendosi sempre più gli uni agli altri. Nell’ultimo mese si sono potute registrare numerose iniziative, oltre all’importantissima visita di Putin a Pechino nel corso della quale la partnership tra i due paesi ha raggiunto nuovi livelli.
E’ sfuggito a molti osservatori che l’ultima visita del premier russo in Cina non ha solamente permesso di firmare una serie di importantissimi contratti nel campo dell’energia e delle infrastrutture tra i due paesi, ma ha anche impresso un salto di qualità alla partnership tra Mosca e Pechino. Cina e Russia hanno infatti deciso di informarsi reciprocamente circa i rispettivi piani di puntamento e lancio dei loro missili balistici[5], quasi volessero prepararsi a mettere in comune le loro risorse in caso si trovassero di fronte ad un attacco immediato portato da una Grande Potenza.
Se a questo sommiamo la riconferma degli accordi nel campo della difesa tra Teheran e Mosca, la costituzione di una forza di intervento rapida della Russia e dei suoi alleati centrasiatici in ambito TSC, le iniziative diplomatiche di Pechino per favorire l’avvio di nuove relazioni tra Russia e Pakistan, le riunioni dell’OCS nelle quali il premier pakistano Gilani è apparso assi disposto ad una più incisiva partecipazione del proprio paese al gruppo di Shanghai e mettiamo in relazioni questi fatti con l’aumento sempre più impressionante delle spese belliche Usa, i test di nuove potenti armi da parte degli Stati Uniti, le minacce crescenti all’Iran ed il riattivarsi del terrorismo integralista in Asia centrale e nel Caucaso settentrionale ne esce un quadro assai teso, anche se abbastanza chiaro.
Per alleggerire la situazione al fronte e non perdere la partita dietro le quinte i vertici di potere statunitensi sono forse disponibili ad una riconciliazione con parte dei talebani, all’inserimento di alcuni di loro nelle strutture a Kabul e a consentire (se non a incoraggiare) una loro dislocazione nelle aree circostanti, al fine di destabilizzare gli antagonisti degli Usa.
Come mostrano anche i nostri media, e come hanno già registrato vari esperti internazionali, i commenti di molti esponenti integralisti che additano la necessità di una “jihad” nello Xingijan o nella valle del Fergana sono in aumento e sembrano fare da “curioso” contrappunto al coro degli strateghi di Washington.
“La priorità di Washington è che i Talebani destabilizzino l’Asia centrale, il Caucaso settentrionale, allo stesso modo della provincia cinese del Xinjiang, e che mettano a soqquadro le regioni orientali dell’Iran”[6], come ha notato l’ex diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar.
Non pare quindi un caso che le fiamme della violenza terrorista riprendano a propagarsi in Caucaso o nel Belucistan iraniano. Probabilmente non lo è nemmeno il fatto che si registri un revival (o quanto meno un rilancio) dei rapporti tra gli Usa e l’integralismo islamico di matrice wahhabita nel momento in cui l’uomo che fu l’architetto dell’alleanza tra la Cia ed i mujahiddin afghani (Brzezinski) è tornato, seppur per interposta persona, alla Casa Bianca.
Karzai si era opposto, finché aveva potuto, ad un secondo turno elettorale. Poi si è piegato ad accettare il ballottaggio con lo sfidante Abdullah (ex ministro degli Esteri), sostenuto da molti ambienti occidentali. La sua immagine ne è uscita sfregiata ma anche l’America non ne è uscita bene. Al dramma che vive il paese si è aggiunta la farsa quando Abdullah ha annunciato che si ritirava dalla competizione, permettendo di fatto la rielezione di Karzai. Al nuovo presidente è arrivato subito il messaggio di quanti lo invitano ad “imparare la lezione”. Nel suo messaggio alla nazione Karzai ha detto di voler ricucire con i talebani. Questo messaggio era solo per loro o era anche per Mangiafuoco?
Sul futuro pesano molteplici incognite. Mentre la guerra impazza furibonda e rischia di allargarsi oltre le frontiere dell’Afghanistan per coinvolgere altre vittime, le montagne afghane assomigliano sempre di più ad infide paludi.
Spartaco Alfredo Puttini: dottore in Storia. Contributi pubblicati in Eurasia: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200).
[1] Circa 2500 persone sono state uccise nel corso di attentati rivendicati dai “talebani pakistani” in tutto il paese dall’estate 2007 ad oggi, di cui circa 400 nell’ultimo mese in risposta all’offensiva dell’esercito nel Waziristan meridionale.
[2] M.K. Bhadrakumar, US goofs the Afghan election; “Asia Times Online” 3/11/2009
[3] L’armée britannique assure le transport aérien des Talibans ; www.mondialisation.ca 18 octobre 2009
[4] A. Shustov, Talibs and Central Asia; in: Strategic Culture Foundation, 30/10/2009
[5] Reuters, 13 ottobre 2009
[6] M.K. Bhadrakumar, Why the US is afraid of “Afghanization”; “Asia Times Online”, 14 settembre 2009