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Channel: Relazioni internazionali – Pagina 314 – eurasia-rivista.org
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La forma impresa del capitalismo manageriale USA

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L’evoluzione della funzione manageriale ha rappresentato una categoria logica interna allo sviluppo dell’impresa capitalistica nella forma della società per azioni, a partire dalla Seconda Rivoluzione Industriale, come proiezione di un pervasivo dominio del Capitalismo Usa, in sostituzione del Capitalismo Borghese (Ottocentesco).

Il tipo di capitalismo Usa venne sommariamente denominato “Manageriale”: una sorta di “archetipo sociale” che, nelle varie fasi dello sviluppo capitalistico Novecentesco, mantenne le sue caratteristiche fondamentali, fin delle sue origini; allorché le “funzioni manageriali” consentirono il decollo di un “nuovo capitalismo,” il cui inizio si ebbe, in modo sempre più marcato, nella separazione della funzione manageriale dell’impresa, dalla sua funzione proprietaria. Lo stesso avvento dell’impresa, dapprima in modo embrionale “come ufficio,” interno al luogo della produzione per amministrare e controllare il lavoro dell’operaio, fu successivamente demandato ad una complessa amministrazione (d’impresa), che mutò completamente il quadro sociale di riferimento: da classe operaia ad in un insieme di ceti sociali del lavoro salariato.

Una sostanziale sovradeterminazione (1) della funzione manageriale, in sostituzione del paradigma della funzione proprietaria dei mezzi di produzione, dispose de facto, una supremazia sociale dei dominanti attraverso le “strategie del conflitto”; una dinamica sociale, non più tra classi, ma tra “gruppi di agenti del predominio capitalistico” in uno spazio geopolitico (mondiale) collocato nelle diverse fasi, e/o congiunture, delle interrelazioni tra formazioni particolari.

Il manager, nella sua funzione di agente capitalistico, è in una piena autonomia politica, se è in grado di elaborare un pensiero strategico, in un processo decisionale di “un’azione organizzativa” eminentemente politica, in un iter di selezione tra due alternative possibili: entro il perimetro operativo della singola impresa del massimo profitto con il minor costo della produzione, oppure, entrare in composizione di un circuito strategico alternativo al circuito operativo considerato; una più complessa combinazione di relazioni tra agenti, che diventano strategiche se poste esternamente alle possibili congiunzioni: in accordi per la supremazia ( tra imprese), ed entro uno spazio temporale, per le singole decisioni operative.

Da osservare, che il pensiero strategico, nella personificazione dell’agente capitalistico (manageriale d’impresa), deve tenere sempre aperta l’alternativa tra le due selezioni possibili, tenendo sempre conto dei risultati conseguiti nelle precedenti scelte operative orientate all’accordo(i) strategico(i). Da qui, l’importanza di un pensiero strategico efficace in grado cioè di produrre una potenza da trasmettere in energia conflittuale, non solo con una razionalità circolare entro i due livelli suindicati, necessari ma non sufficienti; si tratta precipuamente di sviluppare un’azione strategica efficace: un vigore inusitato di un’azione che acquista sempre più energia mano a mano che si accorcia la distanza strategica per la conquista di un predominio; anche soltanto per un’occupazione transitoria di un complesso itinerario strategico, che tende in continuum ad un cambiamento di posizione, similmente ad un caleidoscopio.

L’azione strategica ha il supporto organizzativo dell’impresa: un’ipotesi concettuale di una struttura comportamentale, organizzata in routines di linguaggi, relazioni, saperi, in grado di “funzionare da filtro che seleziona le varietà possibili e guida le decisioni operative” (cfr., Di Bernardo, Rullani, “ Il Management e le Macchine ”). In particolare, sull’azione strategica e sulle teorie organizzative delle imprese esiste una vasta produzione letteraria, in cui spicca, l’itinerario intellettuale, per profondità ed ampiezza filosofica dell’impresa, di J.D.Thompson, nel suo testo fondamentale: “L’azione organizzativa” (1967); un’architettura di uno schema concettuale che richiama scelte di fondo epistemologiche e teoriche di una costruzione di un processo decisionale, il cui campo di azione è scelto (con ipotesi concettuale) e definito con le stesse scelte di costituzione del processo: “ l’organizzazione è un processo di decisioni e d’azioni orientate ad uno scopo..la struttura (dell’impresa) è una scelta d’azione organizzativa, di coordinamento e controllo delle componenti del processo….la struttura è lo strumento principale della razionalità organizzativa, poiché con le scelte di struttura si fronteggia (e si tenta di ridurre) l’incertezza ammessa dalle scelte tecniche…”. Un’idea di organizzazione in fieri, in una gestione del processo “dei vari elementi dell’azione organizzativa di mantenimento di reciproche congruenze, di regolazione diacronica dell’incontro tra diverse linee d’azione, circa gli obbiettivi, le tecniche, il campo, i confini, la struttura;”( cfr., introduzione del testo suindicato)).

Una struttura organizzativa che s’incarnò nell’Impresa Manageriale, con una inusitata voracità nei confronti dell’Impresa Borghese Ottocentesca ( quella del paradigma proprietario), fin dal suo ingresso sullo scenario mondiale (dei primi del Novecento), in un nascondimento di un economicismo a tutto campo; e che consenti un naturale predominio Usa, nella fattispecie di un nuovo e potente processo capitalistico, dotato di un indubbio vigore ed in grado di permeare in modo profondo, ogni aspetto dell’intera vita sociale occidentale; e soprattutto, grazie alle classi sub-dominanti europee che approfondirono sempre più quel predominio, sostenuto e protetto dalla coppia ideologica del liberismo-marxismo (o, per intenderci quella del “Capitalismo Unico”) che impedì di squarciare il velo del reale dominio (Usa), affermatosi in modo totale, con la vittoria della 2° Guerra Mondiale.

Su una stessa linea interpretativa, che sottende l’economicismo sopra dichiarato, teso a nascondere la reale portata del nuovo processo del dominio capitalistico Usa che si andava dipanando in Europa, gli autori suindicati (Di Bernardo, E.Rullani) sostanzialmente neoliberisti, danno, tuttavia, una ricostruzione interessante sulla storia del capitalismo industriale e del management occidentale.

Anzitutto, l’emergere del capitalismo inglese in corrispondenza alla fase iniziale del Capitalismo industriale, dalla fine del Settecento (della Prima Rivoluzione Industriale) ai primi del Novecento. Un modello di Capitalismo Borghese che nella Seconda Rivoluzione Industriale di fine Ottocento, non ebbe modo di ripetersi, come al contrario avvenne, con caratteristiche così peculiari dei capitalismi (di tipo manageriale) degli Stati Uniti, della Germania e dell’Italia. Un modello di capitalismo (quello inglese) che incorniciò una forma di impresa borghese sopravvissuta nella letteratura del (neo)marxismo-(neo)liberismo, e arrivata fino ai giorni nostri, nonostante il suo obnubilamento.

Il modello proposto dell’impresa borghese classica (inglese) non è sufficiente a spiegare il passaggio dalla Prima alla Seconda Rivoluzione Industriale, per delle ragioni che possono essere così riassunte; anzitutto, l’evidente esiguità finanziaria su cui poggiava la costruzione dell’impresa borghese: i maggiori investimenti indotti nelle nuove e più avanzate tecnologie (della seconda rivoluzione industriale) dei grandi opifici industriali, cui doveva far fronte l’impresa borghese che, prigioniera di un costo di produzione elevato ( o non concorrenziale, per il principio della razionalità strumentale del minor-costo-max-profitto che presiede ad ogni scelta imprenditoriale) non consentiva alcuna auto alimentazione finanziaria; inoltre, il modello elementare dell’impresa borghese rappresenta(va) una soggettività (imprenditoriale) la cui organizzazione era pienamente sotto il controllo decisionale dell’imprenditore: un semplice modello organizzativo, che sopravvisse nelle varie fasi capitalistiche dei capitalismi industriali nazionali come elementi costitutivi delle formazioni particolari, oltre ai “vantaggi competitivi” di nicchia dei giorni nostri; una capacità decisionale, e di controllo della proprietà, divenuta comunque, sempre minore, rispetto a quella, sempre maggiore, del management professionale.

Il fabbisogno finanziario dell’imprenditore proprietario, dovuto ad una maggiore espansione delle dimensioni della propria attività si trovò perciò, entro un vincolo troppo stretto, per la sua sopravvivenza; e cioè, una limitata disponibilità, di in un livello sempre più elevato di richiesta di capitale da concentrare e controllare per far fronte ad una produzione di massa. La risposta istituzionale dello Stato(i) non si fece attendere con la creazione della società per azioni (azionariato popolare in Usa) e con essa, la scissione del potere decisionale tra l’azionista di comando e le azioni di minoranza, oltre agli “azionisti senza diritto di voto”, delle banche e dei creditori (stakholders). In ogni caso questa riduzione (e/o perdita) del potere decisionale della proprietà è causato non solo da un maggior fabbisogno finanziario dell’impresa proprietaria, ma anche da una “sempre maggiore complessità organizzativa e tecnologica della grande impresa. A fronte di questa complessità organizzativa rappresentata da una spessa sedimentazione di comportamenti, linguaggi, relazioni…, in derivazione di una elevata complessità del governo dell’impresa, si pose in sostituzione del potere decisionale proprietario, il potere stabile del manager: un potere eminentemente politico in grado di guidare un conflitto inter-imprenditoriale per la supremazia.

La forma d’impresa, che si andò caratterizzando in Usa, si andò evolvendo secondo una configurazione sempre più politica e decisionista divenuta, storicamente, un naturale veicolo di un predominio economico, come un ineluttabile espansione e sviluppo del capitalismo Usa; in pratica, una dogma economicistico dell’evoluzione organizzativa dell’impresa, i cui principi organizzativi fanno riferimento ad una “specializzazione-integrazione” del lavoro manageriale, nell’uso dell’informazione dell’impresa strutturata in “divisioni.

Il Capitalismo Manageriale Usa ha assunto una forma accentratrice ed esclusiva oltre che dissuasiva di ogni forma evasiva e/o eversiva delle politiche capitalistiche nazionali in cerca di autonomia. Un grande Centro, presidiato da imprese innovative, e da una classe manageriale in grado di irradiarsi e ramificarsi come proiezione dello Stato Usa, nel fulcro essenziale del governo della complessità; oltre ad una “pianificazione che definisce – a livello centrale- l’ambito di azione di ogni unità operativa; “ e dagli anni Sessanta in poi, una “ricerca del consenso mediante negoziazione tra interessi, purché dotati di potere contrattuale o a livello economico e, in particolare, politico,” delle democrazie occidentali, le cui volontà non si esprimono più nei Parlamenti, secondo le regole della democrazia rappresentativa del voto, ma si formano soprattutto nella contrattazione con gli interessi organizzati dei Sindacati, Confindustria, Enti Locali…. e a tutti i livelli, in cui intende espandere il suo ambito d’azione e i suoi metodi (piano e negoziazione ).

Il manager, nella sua essenziale funzione politica, ha inteso dilatare il sistema delle transazioni commerciali e finanziarie, ed a porsi come controparte economica, sociale, culturale; ed è naturale che in ogni trattativa alcune forze “ambientali” (banche,finanziatori) acquisiscano – a loro volta – un potere di influenza sull’impresa e si pongano perciò nella posizione di stakeholders (azionisti finanziatori) in grado di partecipare alla distribuzione del surplus (dividendi). Mentre d’altra parte è altrettanto naturale che le imprese si (im)pongano nella posizione di gruppi di pressione (lobbies) nei confronti delle decisioni pubbliche, in modo da influire sulla distribuzione delle risorse (finanziarie) controllate dagli Stati.

* Gianni Duchini collabora con “Conflitti e strategie”

Nota:

(1) “Uno dei punti essenziali della rivoluzione operata da Marx nell’economia politica consiste nel mettere in luce nel suo campo questa relazione di inversione tra la determinazione scientifica e la forma fenomenica, che è per lui una legge generale della scientificità.. L’inversione delle determinazioni strutturali interne, che testimoniano del carattere costitutivo dei rapporti di produzione nelle loro forme di manifestazione, appare così come una caratteristica fondamentale del processo. Questa è la legge che determina lo sviluppo delle sue forme.” Cfr, Jacques Ranciér“Leggere il Capitale” –Ed. Mimesis althusseriana- pag.101.

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